“Walking words on four walls”reproduces the walls of a room on fabric, on a scale of 1:1. Specifically, it is the kitchen as a metaphor of the environment that is experienced and inhabited by man. In transparency we can read various phrases sewn onto the work, which provide an “external” and “internal” interpretation of each wall. On the image are represented the basic, everyday appliances of a kitchen seen as a source of energy of the human body, in its primary elements: water and fire; but the energy that the environment, if properly managed, could provide for man, in the future as well, is not only physical and material. Thought, the density of some languages that are more than mere codes for communicating (a verse from a poem by Valentina Pinza flows out of a tap and describes and “rewrites” a fundamental natural bond between mother and daughter), and desire (evoked by the manual and material interventions that belong to feminine traditions) are powerful non-material energies that have implemented civilisation in all ages.
On the upper part of the canvas is also found the wisdom of the I Ching, which tells us that “everything stays the same” as a symbol of the “crucible” and that waiting until things evolve can be, and perhaps must be, a part of the price. Another value, no longer current but which is destined to regain its attraction, and perhaps even its creative potential, is saving. This is evoked by the writing of the oven of this Franciscan kitchen, which not only invokes that ancient dualism of necessity-virtue but inscribes it into the context of a condition that is almost desirable. The environment, then, is no longer an alien or abstract element of consciousness, but the site that lends itself to an “eroticism of knowing”, as De Certeau would say in "L’Invention du Quotidien", or better, to a tactile and visual reorganisation in which “discourse is produced”.
Les murmures des mures müres
Les mures müres des murs murs
Les murs mures des murs müres
Lesmures murs des murmures

Salette  Tavares, 1963


Tutte le case che mi hanno avuta


L’immagine della casa nell’arte, e cioè la casa intesa come spazio lirico e trascendente, e a volte persino magico, spesso è indissolubilmente legata al tema della memoria. Al di là dal campo letterario, molte opere d’arte e cinematografiche hanno trattato il legame tra la donna e la propria casa, come ci insegna Giuliana Bruno nell’Atlante delle emozioni, soffermandosi in particolare sulle strategie territoriali dell’eroina glamour Harriet Craig nel celebre film di Dorothy Arzner. Ma qual è il confine tra immaginazione e memoria? Nel caso di Tarkovsky, la casa non è una semplice “location” ma una immagine interiorizzata, come un vero e proprio locus di memoria, e il cui ruolo nella sua biografia e nel cinema è stato in continua simbiosi. La casa può diventare l’isola su cui, come nel Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, si indugia sul ricordo della patria o dell’identità perduta, e riflettendo sulla nuova condizione geografica e psichica;  oppure dove pensare al tempo trascorso e a quello che rimane da vivere, come nell’installazione Here & There di Anna Maria Maiolino, dove oggetti ceramici sono accumulati sul letti, tavoli e poltrone di alcune stanze. Sono forme che ricordano il cibo e, al tempo stesso, appaiono come un ammasso di viscere lisce e addomesticate. Uno schermo proietta una poesia in cui l’artista racconta il suo approdo all’arte, come luogo in cui “tutti i discorsi sono possibili”, dal momento che- tutti- siamo stati messi, prima o poi, a tacere. Le opere scultoree di Doris Salcedo o di Rachel Whiteread, invece, ci fanno sentire alla presenza del vuoto in tutta la sua concretezza -ed è proprio il vuoto ciò che noi utilizziamo di un’abitazione-. Lungi dal riconoscervi la casa come prigione femminile, scopriamo un mondo frammentato, nostalgico e onirico, ma indistruttibile, che non si può più perdere o da cui non si è più costretti a scappare perché si resta sul confine tra interno ed esterno, tra  sogno e veglia, proprio come con i loci dell’Ars Memorandi. In queste dimore lo spirito è libero di ritornare sempre, malgrado ogni nostro divenire. Rimasto ormai nella storia della web art, il progetto [domestic] era dichiaratamente incentrato sulla memoria personale dell’artista e programmatrice Mary Flanagan e portava i visitatori a rivivere, attraverso un videogioco, il trauma causatole nell’ infanzia, dall’incendio della sua abitazione. Sempre di più il mondo virtuale si sostituisce allo spazio fisico della nostra casa e vi trascorriamo tempo, lo arrediamo con gli stili, le textures, i colori che più ci piacciono e proviamo intense emozioni di fronte agli schermi dei nostri devices. Proprio alla “quarta parete”, sempre mancante nel punto di vista dell’abitante virtuale, ma anche al titolo di un multiplo di Sol Le Witt, che vi si trova appeso, fa riferimento il titolo della ricostruzione della mia cucina. Fotografata, parete per parete, e stampata in scala 1:1 sul tessuto sintetico del tipo che serve per “impacchettare” i monumenti durante i restauri, è stata ricamata con la scrittura. Sono i libri che per secoli hanno permesso alle donne di evadere dallo spazio domestico e viaggiare con il pensiero, ed è stata la scrittura a rendere trasparenti i muri di tante amate ed odiate dimore femminili. Oltre ad essere un tinello, il luogo che ho riprodotto digitalmente, rappresentava   il crocevia dei micro- transiti quotidiani, e quindi il vero e proprio centro energetico dell’appartamento in cui vivevo. Contrariamente a quanto avviene nel trompe-l'œil, che deve simulare quanta più profondità possibile, la dislocazione della scena sulle 4 pareti ha richiesto, invece, una visione monoculare, quasi bidimensionale degli spazi, aumentandone il campo visivo per mostrare anche ciò che sta al di fuori della stanza.  La trasparenza del tessuto e il suo continuo ondeggiare, inoltre, si prestavano alla precarietà della mia condizione esistenziale, fatta di quotidiani spostamenti per lavoro e di passaggi da una casa all’altra, dell’ambivalenza mai risolta tra casa e atelier, dove mobili e oggetti si spostano  periodicamente in base alle stagioni e al prevalere di un  identità sull’altra. La casa vive, come tutti sappiamo. Brilla o si opacizza, cambia al ritorno dai nostri viaggi e a volte invecchia con i suoi abitanti. I muri si scrostano, I tubi si otturano, l’imbottitura dell’asse da stiro si lacera e il bracciolo del divano si sbrindella. Le persone arrivano o scompaiono nelle nostre domestiche orbite ed evoluzioni e forse per questo il simbolo della Dea Hestia era circolare. Ma non si possono compiere rivoluzioni, dice Deleuze. Si diviene semplicemente qualcosa perché non è più possibile restare nella stessa condizione. Il divenire quindi, è dell’animale, del bambino, della donna, e potremmo aggiungere della casa, se pensiamo a certe ricerche come quelle sulle architetture spontanee di  Marjetica Potrc. Come scrive Richard Sennett, in Lo straniero, due saggi sull’esilio, lo straniero deve riuscire ad affrontare la propria condizione di sradicato in modo creativo e imparare a elaborare i materiali che costituiscono l'identità, alla maniera in cui un artista lavora i fatti più banali trasformandoli in “cose da dipingere”. Territorializzarmi senza mai rinunciare del tutto allo sradicamento, questo è ciò che mi hanno dato tutte le case che mi hanno avuta. 

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